C’era una volta il nord-ovest inglese, terra di industrie, porti, violenza e degrado. Lande desolate bagnate dalla pioggia ed ingrigite da un cielo tetro che si specchiava in apparati industriali rugginosi e carichi di polveri o in aree portuali decadenti. Per questo molti si chiedono come sia stato possibile che in questi posti così desolanti quanto problematici, nel corso degli anni si siano avvicendati così tanti geni musicali e attori di livello mondiale in ambito sportivo.
Ritmi pop e prati verdi che hanno cancellato il ricordo di città popolari dove la lower class stentava a sfamare la numerosa prole che sguazzava negli acquitrini delle periferie. Mancunians e Scousers sono loro gli artefici di un capolavoro che li ha resi celebri nel mondo. Un successo condiviso che si è alternato tra musica e calcio ed in cui il sottoproletariato si è erto ad eroe di sé stesso.
Perchè se i Beatles erano di Liverpool, Rolling Stone, Led Zeppelin, Clash e gli Who, tra i più grandi, londinesi, tutti gli altri poi arrivavano dal nord, dalla culla della Rivoluzione Industriale, perchè proprio in quei fradici ghetti industriali di Manchester, covo del disagio giovanile del tempo, è fiorito il genio musicale più assoluto dei nostri tempi.
A partire dagli anni Settanta fino alla fine degli anni Ottanta la città dei Mancunians era il centro nevralgico della discografia inglese tanto che la scena musicale fu soprannominata Madchester. Sulle rive dell’Irwell hanno lasciato il segno svariati gruppi: Joy Division, Buzzcocks, New Order, Smiths, Stone Roses, Happy Mondays, Ispiral Carpets, The Charlatans, Primal Scream. Un misto di ritmi ripetitivi in cui alternative rock e musica elettronica house originarono un mix esplosivo che toccò l’apice agli inizi degli anni Novanta. Successivamente, ad eccezione degli Oasis di Liam Gallagher, di FatBoy Slim e Chemical Brothers, la scena artistica musicale di Manchester ha lasciato il passo alle gesta del Manchester United, una delle società più gloriose della storia del calcio.
A 55 chilometri di distanza da Manchester, sull’estuario del fiume Mersey e con lo sguardo volto ad Erin, con il mare d’Irlanda a fare da sfondo alle migliaia di migranti provenienti dall’isola di smeraldo, più o meno in parallelo negli stessi anni andava di scena un’altra storia. A Liverpool si gioiva soltanto in ambito calcistico.
Perché la storia di Liverpool non si distingue certo per momenti felici. La sua crescita come città portuale è stata foraggiata dal commercio di schiavi e dopo essersi affermata come “seconda città dell’Impero” da cui partivano le spedizioni inglesi di conquista e morte per tutto il globo, l’anima della città si è trasformata verso la metà del XIX secolo, quando accolse decine di migliaia di irlandesi in fuga dalla Grande Carestia. Un’impronta irlandese che associata all’amore per i colori biancorossi del Liverpool FC, nel corso dei decenni ha dato un’impronta distintiva alla tifoseria di Anfield oggi più spesso associata al tricolore irish piuttosto che alla Union Jack britannica.
Perchè negli anni di Madchester, Liverpool dominava la scena calcistica. Dal ’72 al ’90, andarono alla sponda biancorossa di Liverpool 11 campionati di Premier League, 4 Coppe dei Campioni, 3 Coppe d’Inghilterra, 4 Coppe di Lega, 9 Community Shields. Una città sporca, violenta e squallida in cui si primeggiava in ambito calcistico. Erano gli anni di Dalglish, Keegan, Souness, Thompson, Neal, Whelan, Rush sotto la guida di Bob Paisley prima e Joe Fagan dopo. Una sorta di rappresentativa del Commonwealth in cui giocavano fianco a fianco atleti inglesi, scozzesi, irlandesi, gallesi, l’australiano Johnston e Grobbelaar dello Zimbabwe.
Al miracolo dei Mancunians dunque si aggiungeva quello degli Scousers. Un Ventennio di fenomeni ed enfant-prodige accompagnati dall’imperversare in città di droga ed alcol a cui ben presto si associarono le violenze degli hooligans, causa scatentante di quella vergognosa violenza che sfociò nella tragedia dell’Heysel nel 1985 e, per altri versi, nella strage di Hillsborough del 1989 in cui ancora una volta rimase coinvolta la tifoseria del Liverpool.
Oggi invece è proprio il caso di dirlo, è cambiata la musica.
Se vai a Manchester e preferisci abbandonarti ai vecchi ritmi, ti senti come a casa in ognuno di quei mille pub da cui ancora rimbomba l’arte sonora del Britpop. Se ti trovi a Liverpool e ami il calcio, gironzolando a piedi in quella periferia di casette tutte uguali che ricordano a tratti la proletaria West Belfast, rischi di smarrirti tra i 500 metri che separano il Goodison Park, lo stadio dei biancoazzurri dell’Everton e lo scrigno di Anfield del Liverpool FC.
In quelle strette viuzze assapori la storia e le emozioni di quella vecchia classe operaia che ogni domenica si è sempre divisa tra colori biancoazzurri e biancorossi, tra fiumi di birra e murales che ricordano le leggende del calcio. Ogni stadio collocato nel cuore della lower class è un museo a cielo aperto in cui storia, passione e cultura si fondono in un amore viscerale per i propri colori insieme a celebri inni e pittoreschi murales che tramandano una passione sportiva di padre in figlio.
Indubbiamente la musica ed il calcio hanno svolto un ruolo fondamentale per la rinascita di queste due realtà metropolitane. Tanto vicine quanto diverse, oltre che rivali tra loro. Un passato, rispettivamente di grande centro industriale e portuale. E la resurrezione, grazie alla scoperta delle proprie radici culturali che hanno trovato sfogo nella musica per i Mancunians e nel calcio per gli Scousers.
C’erano una volta due città tristi, sporche e violente, una oggetto di bombe dell’Ira e l’altra in cui l’Ira era idolatrata. Ci sono oggi due città in cui risplendono luoghi un tempo ghetti, il Northern Quarter di Manchester ed il Baltic Quarter di Liverpool. Laddove c’erano due brutte città oggi c’è l’orgoglio di una rinascita urbanistica e culturale che fa invidia a tanti.
Sarà per i ritmi sonori degli anni della Madchester, che Manchester ti si appiccica addosso insieme ai tantissimi locali di Oldham Street dove musicisti di tutto il mondo rinnovano la leggenda delle tante band locali. Sarà per queste ragioni o forse ancora per quell’atmosfera difficile da spiegare e comune alle grandi città di mare, con i loro orizzonti aperti, che Liverpool, che un mare ce l’ha, è un posto da cui si parte con il desiderio di farci ritorno.
La realtà è che Manchester e Liverpool sono due città dal fascino irresistibile in cui l’arte dell’essere si confonde a tratti con l’essenza dell’arte sia essa sportiva, musicale o semplicemente esistenziale.