Le tre città più belle del mondo? Budapest, Bucarest e Tard Nuestr. Il dialetto della città di Taranto a differenza di molti accenti dell’entroterra tarantino ha origini spartane. Appena usciti dalla città si sente subito una forte differenza di dialetto. Mentre quello tarantino è gutturale e locale, caratteristico della sola città (deriverebbe dal greco parlato a Sparta secondo la “leggenda” ma pare sia un falso acclarato, in realta la lingua è un misto tra francese e spagnolo) , spostandosi di qualche chilometro nella provincia, il vernacolo cambia e diventa verso nord-est simile al dialetto barese, verso sud-est simile al dialetto salentino (leccese/brindisino). La sua variante più genuina è parlata esclusivamente entro i confini della città, in particolare nel centro storico, Taranto vecchia, un’isola di circa trenta ettari situata tra il Mar Grande ed il Mar Piccolo, collegata alla terra ferma da due ponti, che negli anni ha fatto tanto parlare di sé per la sua bellezza intrinseca, i pescatori, la sua decadenza storica e culturale e per il suo affaccio a nord su uno dei panorami più infami che l’occhio umano possa desolatamente osservare.
I muri di Taranto vecchia parlano da soli, si rivolgono impietosi e senza speranza a chi nel corso di quasi mezzo secolo avrebbe dovuto preservarne decoro urbanistico e salute pubblica, con dignità e fierezza. Qui un tempo vi abitavano più di trentamila persone, ora ce ne sono solo duemila, perlopiù pescatori e mitilicoltori. Ma quello che fino a pochi anni fa era un ghetto selvaggio circondato dalle acque dello Ionio, oggi sembra rinascere sulle macerie di un abbandono decennale che ha reso quel lembo in mezzo al mare una terra di nessuno in balìa di contrabbandieri e spacciatori, ratti e sporcizia. Addentrarsi nelle viuzze strette di ciò che ancora oggi ne contraddistingue l’architettura, passando dal Tempio di Poseidone al Museo Ipogeo Spartano, è come affrontare un viaggio nel tempo che da Sparta alle Cheradi, da Demostene ad Eurimedonte resuscita quei 150 lanciatori di giavellotto messapi forniti da Artas, principe messapico, in nome di un antico trattato di amicizia tra Messapi e Ateniesi ai tempi dell’attacco spartano di Siracusa nel 453 a.C.
Le Cheradi con quel tramonto dorato tra le isole di San Pietro e San Paolo, l’Amerigo Vespucci che per la seconda volta nella storia giunge in città ammaliando tutti coloro che hanno avuto la possibilità di assistere al passaggio dal canale navigabile con l’apertura straordinaria del ponte girevole, l’odore di pesce che dalle bettole di una volta fuoriesce e sovrasta la folla oceanica che dopo mesi di lockdown, finalmente può godersi una città che per un giorno, fingendo di dimenticare la propria agonia volge lo sguardo a sud ovest.
Ma Taranto, bella e sgargiante in tutto il suo fascino estivo è anche altro. La città è sotto assedio e spesso ci si dimentica di quel che c’è intorno. Basta affacciarsi alle ringhiere del lungomare verso nord o imboccare la via Appia, oggi SS7 e uscire dalla città diretti a Matera. Se a destra c’è l’Ilva, girando lo sguardo dall’altra parte si vedono il cementificio Cementir e subito dopo, la raffineria Eni con i suoi serbatoi.
Continuando fino a Massafra ci sono anche un paio di inceneritori. Il primo è pubblico, gestito dalla municipalizzata tarantina Amiu e brucia rifiuti urbani; il secondo è di Appia Energy, un’impresa del gruppo Marcegaglia che brucia Cdr, rifiuti speciali. A Taranto su un totale di poco meno di ventiseimila bambini nati tra il 2002 ed il 2015, ben 600 soffrono di una malformazione congenita. In città risulta in eccesso la mortalità per tumore del polmone, per mesotelioma della pleura e per le malattie dell’apparato respiratorio, in particolare per le malattie respiratorie acute tra gli uomini e quelle croniche tra le donne. Ed oltre al divieto di pascolo in un’area di 20 chilometri intorno all’area industriale ci sono i tumori (+500% tra i lavoratori ex ILVA), i linfomi di Hodgkin e i morti, tanti morti. Un eccesso di circa il 30 per cento nella mortalità per tumore del polmone; eccesso compreso tra il 50 per cento (uomini) e il 40 per cento (donne) di decessi per malattie respiratorie acute, bambini inclusi.
Taranto è un guazzabuglio di ciminiere che fa da sfondo ai suoi tramonti, ma il suo carattere distintivo è quell’odore nauseabondo che favorisce un’associazione immediata con la città. Potresti entrarci ad occhi chiusi e riconoscerla, basta annusarla Taranto e non te la scrolli più di dosso. Se poi apri gli occhi vedi quella polvere rossa che attanaglia le case dei Tamburi, il quartiere a ridosso del mostro siderurgico, che piange quotidianamente nuovi morti e nuovi malati. Taranto se la conosci, ti resta incollata come una delle sue cozze, prodotto tipico locale che negli utimi anni è stato sinonimo di contaminazione da diossina. Ma a Taranto le cozze si mangiano soprattutto crude a ridosso di quei muri che urlano a squarciagola il proprio disprezzo verso il più grande impianto siderurgico d’Europa. I murales scrostati da anni di inutili battaglie, sbiaditi dal tempo, simboleggiano una città che sembra non aver più voglia di tifare nemmeno per la propria squadra del cuore, e forse nemmeno di lottare. Un’intera città che dipende da tre quarti di secolo da un mostro d’acciaio che ne ha distrutto l’identità e si è appropriato della salute della gente, lasciando solo una flebile speranza che svanisce con il passare del tempo. Uno Stato che si è arrogato il diritto di condannare a morte un proletariato a cui è stato tolto tutto. Presidenti del Consiglio che hanno partecipato alle riunioni di fabbrica arrogandosi il diritto di promettere senza mantenere, per poi scappare (come fece l’ignavo fiorentino) davanti ai contestatori. Una caccia processuale ai fantasmi che in questi dieci anni non ha dato risposte e i ventimila operai divenuti nel frattempo quindicimila perchè tanti sono andati in pensione e tanti andati via per sempre, continuano ad alimentare le fiamme di una fabbrica che inquina oggi come ha inquinato per buona parte del Novecento.
Ricordo ancora l’odore di Taranto quando da bambino accompagnavo mio padre ed i suoi amici alle orge gastronomiche a base di pesce nel cuore del capoluogo. Ai tempi era una città dura e gentile, dolce ed amara, solare e cupa, profumata e puzzolente, in cui l’intreccio di parole strascicate in italiano ed in dialetto alimentavano la curiosità verso una comprensione linguistica molto ardua. In quegli anni c’era una filastrocca che tutti i bambini tarantini conoscevano a memoria, e faceva così … “Petrovic, Giovannone, Cimenti, Panizza, Dradi, Nardello, Gori, Fanti, Iacovone, Selvaggi e Caputi…” e l’accento cadeva su Iacovone, negli anni in cui il Taranto e Taranto hanno accarezzato il sogno della Serie A. Un sogno infranto come la vita del ventiseienne calciatore simbolo di quella squadra. Erasmo Iacovone l’unico Re di Taranto la cui vità finirà in tragedia trovando la morte in un incidente stradale a San Giorgio Ionico dove la sua vettura, una Citroen Dyane, sarà speronata da un’Alfa GT appena rubata da un giovane e che procedeva a fari spenti a 200 all’ora perché inseguito dalla polizia. I ventimila tarantini che parteciparono al funerale furono il preludio all’intitolazione di stadio, strade e piazze oltre alla posa di statue in sua memoria che negli anni gli furono dedicate in tutta la città.
E come diceva Henry Scott Holland “La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come se fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste…..”
Erasmo Iacovone non è un martire, nessuno lo considera così a Taranto. La sua presenza però è ancora tangibile perchè la storia di Iacovone è la storia di Taranto, in un legame inscindibile. Due elementi che si trovarono per caso, si rincorsero, danzarono tra gli odori acri dei fumogeni della curva e, quando tutto sembrò idilliaco, si abbandonarono.
Taranto fu sfortunata, Taranto è sfortunata. Una città che viveva di calcio ma che dal calcio così come dalla vita non ha mai avuto gioie, perennemente annebbiata dai fumi tossici dell’ILVA, quell’industria che come un boomerang si è scagliata contro la sua stessa popolazione dopo averla illusa per anni.
Voglio pensare che oggi Iacovone sia ancora il simbolo di Taranto, più del suo delfino, più dell’ILVA, più della sua puzza, più delle cozze alla diossina. Si, perchè in fondo questa città dannata, anche se trattata come una puttana, nel profondo del suo essere resterà per sempre Tard’ Nuestr’ nonostante la sua silenziosa eutanasia.
REPORTAGE FOTOGRAFICOd