A poco più di un’ora di volo dall’Italia, immerso nel cuore dei Balcani, così vicino ma che sembra infinitamente lontano, dove ricordare è una faccenda estremamente complicata, c’è il Kosovo.
In Kosovo ci sono impervie montagne, dolci colline, immense pianure, infiniti villaggi, moderne città, nuove autostrade, auto di lusso, alberghi lucenti, grattacieli sfavillanti, banche straniere, moderne ambasciate, giganteschi centri commerciali, ma anche edifici fatiscenti, macchine rattoppate, strade sterrate, cumuli di macerie, polvere nell’aria e odore di cenere. La capitale Pristina è moderna e visionaria, affollata di giovani. In Kosovo i giovani sotto i 30 anni rappresentano il 70% della popolazione, (complessivamente pari a due milioni di abitanti circa) ed anche per questo a distanza di 20 anni da quel tragico 1999, oggi tutto è diverso ed il passato appare sfocato.
Il Paese è stato in larga parte riscostruito ed ammodernato ed è uno shock per chi ha vissuto in lungo ed in largo i Balcani, ritrovarsi nella nuova potenziale Svizzera dell’Est. Oggi le rimesse dei kosovari all’estero (circa un milione di persone) sono stimate in due miliardi di euro che annualmente rientrano in Patria, un miliardo in contanti ed un miliardo tramite banche estere che fanno a gara per aprire nuove filiali. La zona artigianale che circonda Pristina fa invidia alle migliori aree commerciali europee. Migliaia di imprese, attività al dettaglio, concessionarie di auto, si susseguono per chilometri una dopo l’altra. Sullo sfondo un aeroporto luccicante e moderno si prepara all’arrivo di nuovi voli internazionali per la prossima stagione estiva.
Quasi tutti i Paesi occidentali hanno contribuito alla rinascita del Kosovo, in primis gli Stati Uniti che hanno fortemente voluto l’indipendenza dell’ex provincia serba e che oggi, con l’inaugurazione della nuova e sfavillante Ambasciata da duecento milioni di dollari, collocano il Paese come punto di riferimento nell’area balcanica.
Ma in Kosovo ci sono anche tante ferite aperte, che come tagli profondi vivono ancora nella terra, sulle case e nelle persone. In quest’area grande all’incirca come l’Abruzzo è avvenuto molto e non solo quando gli occhi del mondo erano puntati su di esso. In Kosovo è passata la Storia, si sono avvicendati eserciti, ribellioni, periodi di pace. Qui si sono consumati atti eroici scritti nei libri e atti eroici di cui nessuno si è mai interessato, in Kosovo si sono avvicendati domini, nazioni, bandiere, gli intellettuali vi hanno riversato fiumi di parole e milioni sono state le persone che vi hanno vissuto senza pensare minimamente che facessero parte della Storia, quella che deve essere raccontata e assaporata.
Nei miei giorni kosovari ho dato sfogo con forza ai sensi più intimi. Ho respirato a fondo quell’aria dall’odore indecifrabile che forse era polvere, forse era il profumo delle persone o forse era il veleno della centrale Kosovo A, a due passi da Pristina e tristemente nota come la più grande fonte di inquinamento d’Europa. Ma per il Kosovo, rinunciare al carbone è un affare complicato: la lignite riscalda quasi tutte le case e dà elettricità a quasi tutti gli edifici, perché il Paese è seduto sulla quinta maggior riserva di lignite al mondo.
Ho osservato nei meandri di quei villaggi e nelle trafficate arterie della Capitale, rilevando tanta speranza per il futuro. Ho ascoltato racconti di massacri e di violenze di cui è difficile narrare ma che qualcuno ha ancora la forza ed il coraggio di ricordare. Ho toccato con mano la realtà di un conflitto tanto barbaro quanto vigliacco, senza perdere di vista il senso delle cose. Ho assaporato il gusto di un luogo tanto dolce quanto amaro, nel cuore dei Balcani, assimilandolo al recondito aroma di una perla. Per tutte queste ragioni il cuore dei Balcani è un posto molto difficile da decifrare ed interpretare e per questo è molto suggestivo. Se luoghi come la Bosnia infatti, rivelano la lunga storia di mescolamento tra le diverse comunità, del Kosovo non si può dire la stessa cosa. Qui la separazione tra comunità esiste da molto tempo, complice un fattore che nella maggior parte dei Balcani non c’è: la lingua. Le poche decine di migliaia di serbi rimasti in Kosovo parlano con il loro idioma slavo e scrivono in cirillico. Gli albanesi del Kosovo (i kosovari) usano l’alfabeto latino e parlano l’albanese nel dialetto ghego.
E se per i kosovari la lingua è l’elemento di maggior importanza, dall’altro lato ciò che più conta è la religione. Gli ortodossi serbi si contrappongono così, storicamente, ai musulmani kosovari albanesi.
La guerra in Kosovo, contrariamente a quanto si possa pensare si è sviluppata a fasi alterne ed ha riguardato lo status del Kosovo, allora compreso nell’Unione delle Repubbliche di Serbia e Montenegro, facente parte della ex-Jugoslavia.
Nel 1989 Slobodan Milosevic liquida le autonomie del Kosovo trasferendo tutti i poteri in mano serba e avviando una graduale azione repressiva, dopo le tre guerre di aggressione contro Slovenia (1991), Croazia (1991) e Bosnia-Erzegovina (1992-1995).
L’inferno in Terra, come molti definirono quel conflitto, provocò perdite di vite umane, distruzione e danni economici, che hanno pesato a lungo sulla vita sociale del paese, alimentando l’odio etnico secolare tra i due popoli che pretendevano il controllo del paese.
Le forze paramilitari serbe uccisero oltre 13.000 civili kosovari, mentre i caduti tra i combattenti albanesi si aggirano intorno a 5.000 unità, nell’impossibilità di determinare il numero preciso e distinguere tra kosovari civili e combattenti dell’UCK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës) nome albanese dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, non reclutati con un arruolamento formale. Mentre tra i serbi si contarono circa 3000 vittime, sia a causa delle ritorsioni dei kosovari al loro ritorno dopo la fuga dal Paese, sia durante l’attacco della NATO che bombardò incessantemente non solo la Serbia ma anche il Kosovo dal 24 marzo al 10 giugno 1999. Si stima inoltre che circa 20.000 donne albanesi furono stuprate dai militari serbi, creando una profonda lacerazione nella società civile di cui oggi in pochi osano parlare.
Bekim, nel girovagare tra i villaggi kosovari, mi racconta di come quasi nessuno osi toccare l’argomento stupri: “è un argomento tabù, il più vile degli orrori“. Per due decenni le ventimila donne abusate sessualmente sono state le vittime nascoste della guerra, quasi fossero un indotto di secondaria importanza. Una cifra spaventosa se si considera che rappresenta il 5% dell’intera popolazione femminile. Lo stupro che non si è configurato come fatto occasionale e individuale quanto, piuttosto, come atto sistematico, vero e proprio strumento di guerra: un crimine, perlopiù finalizzato alla pulizia etnica, paragonabile alla tortura e all’omicidio.
La pulizia etnica ha reso il Kosovo un museo a cielo aperto. Oggi le strade hanno memoria. Le innumerevoli fosse comuni, gli eccidi, le stragi, le violenze e le morti oggi si sono trasformate in splendidi memoriali e mausolei che ad ampio raggio si avvicendano tra i villaggi. Le bandiere rosse con l’aquila nera a due teste al centro, sono ovunque. Il loro sventolio accompagnato da una targa ricordo, un’area recintata e l’immagine scolpita di un combattente, ricordano che in quel luogo esatto è caduto un giovane guerrigliero dell’UCK.
Oggi, due sono i luoghi simbolo a ricordo dell’immane tragedia kosovara. Recak, un villaggio parte della municipalità di Stimlje, noto per il massacro di 45 civili inermi avvenuto il 15 gennaio del 1999, sotto gli occhi dell’osservatore dell’OSCE William Walker, uno dei primi a recarsi sul luogo del massacro, e movente che portò all’intervento della NATO per fermare il genocidio in corso.
Prekaz, domicilio di Adem Jashari leader indiscusso dell’UCK, dichiarato eroe nazionale del Kosovo e dell’Albania. Qui il 5 marzo del 1998 lui ed altri 52 membri della sua famiglia furono trucidati dall’esercito serbo nel corso di una mattanza che coinvolse donne e bambini. La casa della sua famiglia a Prekaz è stata trasformata in una specie di santuario. Nel 2008 gli è stato attribuito il titolo di ‘”eroe del Kosovo” da parte del Primo Ministro e gli è stato intitolato l’Aeroporto Internazionale di Pristina.
Come in tutte le guerre, oggi in Kosovo i monumenti sono riservati solo ai vincitori, gli unici che si sentono liberi di procedere verso un futuro positivo. Un appiglio per la memoria dell’uno e un’offesa alla dignità degli altri. Quegli altri, i serbi, che a Mitrovica vivono confinati al di là del ponte sul fiume Ibar, nella parte nord della città. E se altrove i ponti sono costruiti per unire, qui sono il motivo della discordia per cui ancora oggi cento uomini italiani (facenti parte delle residue 5000 unità della NATO) sono dislocati in Kosovo “solo per questo ponte”, ci confessa un Carabiniere di mezza età di pattuglia lungo il fiume.
Al termine del mio viaggio, il Kosovo mi lascia con tante domande e numerosi dubbi. E’ un luogo pirandelliano, costellato da infinite contraddizioni. Per sessanta Paesi del mondo è uno Stato, per gli altri non lo è. Albanesi e Serbi, ognuno vive un Kosovo differente da quello degli altri e tutti sono accomunati da una cosa sola: la sofferenza. Lascio Bekim citandogli una frase che mi riferì un anziano di Belgrado anni addietro “Noi dei Balcani se non facciamo la guerra non siamo felici”. E’ proprio vero, e oggi in Kosovo vedo tantissimi giovani felici, gioiosi e speranzosi per il futuro come mai li avevo visti prima nei Balcani. Vado via orgoglioso di aver toccato con mano l’incredibile sensazione che si può ripartire dopo un’esperienza tanto dolorosa; però finchè non lo vedi non ci credi. Affascinato da questo posto, lascio attorno a me solo albanesi del Kosovo nella loro vita più intima ed io, da solo, mi accingo a ripartire alla ricerca di nuovi itinerari dell’infinito viaggiare.
Dicembre 2019